Senza Rimpianti


Paesaggio delle Fiandre. Espressionismo.

Di Daniele Giglioli. Pubblicato su La Lettura il 23 luglio 2017. Recensione di: Massimo de Carolis, Il rovescio della libertà, Quodlibet, 2017.

Si è inceppato il progetto di Hayek e Mises

Non si trattava solo di ideologia. La marcia trionfale con cui il neoliberalismo ha spazzato via in un breve volgere di anni – il cui inizio è convenzionalmente associato all’ascesa di Ronald Reagan e Margareth Thatcher – un intero secolo di pratiche governamentali come il welfare state, l’intervento statale nell’economia, l’idea stessa di poter pianificare uno sviluppo sociale non spontaneo, era dovuta al fatto che alla sua base non c’era solo una teoria economica, ma un progetto antropologico, un dispositivo di civilizzazione, una politica della vita: l’unica, col senno di poi, che abbia saputo fronteggiare in modo creativo quella crisi della modernità che aveva oppresso tutto il Novecento. Un progetto coerente, una teoria, nel più alto senso del termine, su quale sia e soprattutto quale possa essere la posizione dell’uomo nel cosmo, di portata affine a quella delle grandi religioni, capace di articolare ciò che è sempre e ciò che è ora.

È questa l’ipotesi da cui muove II rovescio della libertà (Quodlibet), il nuovo saggio di Massimo De Carolis, cui si devono già libri importanti come La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Bollati Boringhieri) e II paradosso antropologico (Quodlibet). De Carolis non spreca tempo con gli apologeti tardonovecenteschi che accompagnarono il progetto quando era già in fase operativa, e risale alla radice della teoria, formulata tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta da autori austriaci come Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek, destinati a esercitare grande influenza nel mondo anglosassone, e tedeschi come Walter Eucken, Alexander Rüstow, Wilhelm Röpke, i padri ordoliberalisti dell’economia sociale di mercato europea. Pur tra differenze e polemiche che divisero i due gruppi (più fautori di una totale deregulation gli austro-americani, più disponibili a una coordinazione statale i tedeschi), il neoliberalismo ha in comune per De Carolis due assunti: intercettare e incoraggiare la crescente dinamizzazione della società che la modernità ha messo in moto; e porre il rapporto di scambio mercantile, basato sulla libera fluttuazione dei prezzi, a paradigma dell’intero spettro delle interazioni significative possibili tra gli esseri umani. Due opzioni controcorrente all’epoca in cui vennero formulate, quando trionfavano i totalitarismi, il mondo anglosassone rispondeva al crac del 1929 con un forte intervento statale nell’economia, e tutti si preparavano alla guerra.

Per dinamizzazione della società De Carolis intende la tendenza – insita da un lato nella capacità trans-storica della specie umana di distaccarsi dal qui e ora ambientale per progettare il mondo in vista del futuro, dall’altro in una modernità intesa come liberazione dai vincoli, accelerazione del tempo storico, ricerca del nuovo piuttosto che dell’equilibrio – a ricavare valore non tanto da ciò che già c’è, ma piuttosto da ciò che si scommette che ci sarà: un investimento sul possibile, un «non ancora» cui affidare le proprie speranze di successo. È su questo che la modernità entra in crisi a fine Ottocento, quando si accorge che non sa governare l’enorme incremento di possibilità, relazioni e interazioni che lei stessa ha promosso. Chi può prevederle tutte? La soluzione novecentesca è stata un enorme potenziamento della sovranità statale, sempre di nuovo reiterando, teste Carl Schmitt, quella fondazione archeologica dello Stato moderno che era stato il Leviatano di Hobbes: un dio mortale, un detentore unico della decisione sovrana investito dell’autorità di sospendere la normalità e decretare lo stato di emergenza. Col guaio, oltre agli intollerabili costi etici e umani di questo scambio tra sottomissione e protezione che oggi suscita rimpianto in molti, di dover constatare che la dinamizzazione è in realtà uno stato di emergenza permanente, perché la situazione cambia di continuo e nessuno può tirare il freno della storia.

In questa emergenza permanente si insedia il progetto neoliberale, che aspira a sostituire al dispositivo sovrano della decisione (generante subordinazione, e non a caso i nemici dell’ancien régime dovettero inventarsi come nemico un feudalesimo che non esisteva più da secoli) il principio mercantile della scelta, idealmente compiuta tra soggetti liberi che nulla vincola a fare quella scelta invece che un’altra, e che si regolano in base al calcolo razionale dei propri interessi fondato su aspettative ricorsive (faccio x o y perché mi aspetto che lui si aspetti che io faccia x o y, e così via). Non si tratta più di porre un argine esterno alla complessità, ma di governarla dall’interno, mettendo chiunque in condizione di farsi imprenditore della propria vita, il che rispecchia meglio di ogni soluzione sovrana l’ordine cosmico – come è fatto l’umano, qual è il suo desiderio, come mettere a frutto le sue facoltà cooperative bonificando il conflitto in competizione.

Ma qui, insieme alle ragioni del trionfo, si trovano per De Carolis anche quelle del tramonto. La civiltà neoliberale non è stata capace di mantenere ciò che prometteva perché, al netto delle applicazioni, nella teoria stessa c’era un punto cieco, un rifiuto di vedere. Se la decisione sovrana non basta a neutralizzare la distruttività umana, anche la scelta mercantile può solo illudersi di aver sconfitto ciò che nega, e cioè il permanere delle relazioni di potere in una vita schiacciata senza residui sotto il principio di prestazione. Crescita delle diseguaglianze, lobbying, enormi oligopoli finanziari e tecnologici, revolving doors tra governi e consigli di amministrazione, rifeudalizzazione di rapporti sociali talmente asimmetrici da costringere i soggetti a continui atti di subordinazione, dipendenze personali meno evidenti ma non meno costrittive di quelle moderne, sono sotto gli occhi di tutti. Col paradosso che, a fronte di questi fallimenti evidenti, la presa sulla vita dei dispositivi neoliberali resta più forte che mai e tra governanti e governati circola un senso di impotenza diffuso.

La dinamizzazione è inceppata. La decisione si traveste ma non sparisce. La scelta conta sempre meno. I veramente liberi – come in passato – sono pochi. Il pluralismo si nutre di ostilità. Al neoliberalismo il merito di aver mostrato che le risposte novecentesche, comunque insostenibili, più che sbagliate non erano rivolte alle domande giuste, quelle domande che esso invece ha saputo porsi. A quelle stesse domande – che coinvolgono in ultima istanza l’animale umano in quanto sempre incompleto, progettante, impastato di possibile, bisognoso, diceva Kant, di colmare il vuoto della creazione che non gli ha prescritto fini certi –, è urgente trovare altre risposte. Inutile rimuginare sulle vecchie. Il futuro è più che mai aperto. L’ultimo insegnamento che dai maestri del neoliberalismo si può trarre è quello di affrontarlo senza rimpianti.

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