L’uomo Invaso


metropolis

Dispiegamento Economico e Ripiegamento Cosmopolitico

Di Eduardo Viveiros de Castro. Fonte: Baierle, 4 settembre 2019.

Chi tardi arriva si arrangia ~ Vecchio proberbio brasiliano, sottotitolo del libro di Warren Dean With Broadaxe and Firebrand: The Destruction of the Brazilian Atlantic Coastal Forest

Nota preliminare

Questo testo cannibalizza vari scritti pubblicati in luoghi e momenti molto diversi. La prima parte è presa dal prologo al librio di R. Arnt e S. Schwartzmann, Um artifício orgânico: transição na Amazônia e ambientalismo (1985-1990) (Rio de Janeiro: Rocco, 1992). La terza e quarta parte vengono dall’introduzione all’Almanaque Socioambiental 2008 (São Paulo: Instituto Socioambiental, 2007), scaricabile da internet (http://ppbr.in/TMKcW5). La seconda parte è una risposta (pure pubblicata sul sito del ISA) ad una serie di dichiarazioni che il “Ministro straordinario per le questioni strategiche” Roberto Mangabeira Unger credette opportuno fare alle imprese riguardo l’Amazzonia attorno alla metà del 2008. Allora il presidente Lula e il capo della Casa Civil Dilma Rosseff lottavano per l’approvazione della misura provvisoria 422, nota anche come “Misura dell’accaparramento”, che legalizzava spudoratamente l’appropriazione fraudolenta, e quasi sempre violenta, delle terre pubbliche dell’Amazzonia da parte di latifondisti e grandi interessi agrofinanziari. Il chiassoso arrivo al governo di Mangabeira Unger, preso da Harvard per venire a dare legittimità “scientifica” a questa politica antiambientalista, fu l’ultimo affronto che costrinse il ministro dell’ambiente Marina Silva a lasciare l’incarico e, più tardi, anche il partito. L’approvazione della MP 422 da parte del senato avvenne a luglio del 2008. Le questioni affrontate in questo collage di testi mantengono, mi pare, tutta la loro attualità e urgenza. Basta pensare a ciò che accade attualmente (22 maggio 2011) alla camera federale a proposito del codice forestale. E a quello che continua a succedere ad un ritmo accelerato nel (o meglio al) pianeta. A tutto ciò ho aggiunto un paragrafo finale che mi porta su una questione diversa, ancora poco affrontata.

I

Cadute alcune delle maschere dietro cui si è nascosta la physis durante l’ultimo quarto del secolo scorso, l’Amazzonia diventa il campo di battaglia di un dramma decisivo: gli attori coinvolti, coniugando in maniera inedita micro e macropolitica, si contendono il destino futuro. Al di là della dialettica tra stato e natura, due totalità immaginarie inventate da un conflitto da cui è stata sempre esclusa la popolazione e le sue innumerevoli associazioni con altre popolazioni e altre forze – giacché il popolo talvolta si vedeva convenientemente rappresentato dal primo e talaltra forzatamente assimilato all’altra –, si apre ora lo spazio per una nuova geofilosofia politica. Scambiando la naturalizzazione della politica per la politicizzazione della natura, legando direttamente la terra alla Terra al di là delle frontiere, dei codici e di altre invenzioni delle vecchie territorializzazioni statali, la nuova geopolitica, o piuttosto la cosmopolitica dell’ambientalismo, nega allo stato l’etichetta dell’infinito e il privilegio della totalizzazione. Assieme allo stato, è la natura – una certa idea della natura – che deve cambiare: deve dismettere la funzione tradizionale di Supremo Tribunale Ontologico e aprirsi ad una cosmoprassi polivoca, molteplice e simmetrica.

Certo, possiamo ribaltare la visuale e vedere il vecchio nel nuovo. Cosmologia del tardo capitalismo, risacralizzazione della storia e della geografia che chiude il ciclo aperto con l’espansione cinquecentesca dell’Occidente, riterritorializzazione su tutta la superficie del globo di un movimento secolare di deterritorializzazione locale, nazionale e continentale, il discorso ambientalista sarebbe, in questo caso, la vendetta finale della Totalità. Annuncerebbe la venuta di un medio evo postilluminista: il discorso della finitudine e della trascendenza, uscendo dallo spazio-tempo delle relazioni tra l’umano e il divino, sarebbe quindi articolato attorno al confronto tra la società e la natura. La selva amazzonica occuperebbe, ora non solo in maniera allegorica, il luogo della cattedrale gotica: le fronde che diventano la “chioma dorata”, la Foresta che occupa il trono del Logos. E la Società, che fino a non molto tempo fa era la matrice e il modello di ogni ordine e di ogni mondo, oggi è vista come disordine e causa di disordine, come hybris suicida che può giungere alla redenzione solo accettando la subordinazione ad una totalità e ad un ordine che la inglobi e la determini.

Si potrebbe vedere nel movimento ambientalista una sorta di ripetizione del cristianesimo, che erode e allo stesso tempo ricapovolge, in nome di totalità più totali e di universali più concreti, le astrazioni imperiali di tutte le Rome moderne – con, per giunta, i brasiliani nel ruolo equivoco di barbari che devono essere convertiti dai missionari di questa nuova religione della classe media (l’etica protestante trita e ritrita); barbari, anzi depositari del sacro graal amazzonico e garanti della salvezza planetaria. Certo, è sempre possibile disattivare qualcosa, prenderla dal lato morto che tutto ciò che è vivo non può non avere. Ma l’ambientalismo può essere considerato anche un discorso radicalmente nuovo, che rifiuti certe parti fondanti della Ragione occidentale (scusate il pleonasmo). In particolare questo che chiamiamo, quasi sempre in senso peggiorativo, “ambientalismo” o “ecologismo” è un discorso che rifiuta l’idea secondo cui l’homo sapiens è la specie eletta dell’universo – per concessione divina o conquista storica –, titolare esclusiva della condizione di Soggetto e agente di fronte ad una natura vista come Oggetto e paziente, come bersaglio inerte di una prassi prometeica. Questo discorso problematizza la categoria della Produzione rappresentandola come l’ultimo avatar della trascendenza: l’idea dell’uomo che produce e si produce opposto al non-uomo, un movimento infinito di spiritualizzazione che è, prima di ogni altra cosa, la negazione di una materia prima. Al posto di ciò, propone un’internalizzazione della natura, una nuova immanenza e un nuovo materialismo; la convinzione che natura non possa essere il nome di ciò che sta “là fuori”, perché non esiste un fuori, né un dentro: il fuori è il nostro centro, e il cosmo è un tessuto fitto di interiorità. Dobbiamo essere natura, o non esistiamo.

Intesa così, come idea della realtà, la “natura” indica il limite assoluto della storia. È il paesaggio della nostra epoca: il pianeta, dalla stratosfera al sottosuolo più profondo, è saturo di umano, dei suoi segni così come dei suoi scarti; la cultura si è estesa a tutta la natura, ecologia e antropologia sono confluite in un solo punto. L’ambientalismo impone una revisione drastica dei paradigmi di progresso e sviluppo indefiniti, che tuttora guidano le nostre forme economiche e i nostri programmi ideologici. Il nostro concetto lineare e accumulativo della storia – congenitamente cieca riguardo la struttura, le norme sistemiche e le causalità circolari – ha aperto gli occhi troppo tardi per constatare che la miseria, la fame e l’ingiustizia non sono frutto dell’incompletezza della marcia del progresso, bensì un suo “sottoprodotto” necessario, che si accumula tanto più quanto più la marcia procede nella stessa direzione. Più cresce la “produzione di alimenti” e più persone soffrono la fame. Il terzo mondo è già, perché lo è sempre stato, parte del primo mondo, ed è dappertutto. Viviamo nel ventesimo secolo con la testa nel diciannovesimo; lo choc del futuro si annuncia duro per tutti.

II

Contrariamente a quello che ha detto in un’intervista recente il ministro straordinario per le questioni strategiche, Roberto Mangabeira Unger, l’Amazzonia non è una “collezione di alberi”.[1] Due punti per chiarire le sue idee, signor ministro.

Primo, le collezioni di alberi esistono solo negli orti botanici, i parchi pubblici e i giardini dei milionari. L’Amazzonia è un ecosistema, una foresta formata da alberi e un’infinità di altre specie viventi, compresi esseri umani che vivono lì da almeno quindicimila anni. Questa foresta, anche solo dal punto di vista strettamente arboreo, è un gigantesco organismo rizomatico, cioè esattamente il contrario di una collezione eterogenea di individualità indipendenti. Ogni ecosistema è un rizoma, secondo il senso logico-metafisico datogli da Deleuze e Guattari in Mille Piani. Ricordiamo che le piante della regione possiedono in genere radici poco profonde, trovano sostentamento grazie ad un apparato radicale superficiale interconnesso in estensione e grazie a radici tabulari esterne, alimentandosi perlopiù della propria materia decomposta dall’azione simbiotica di batteri, funghi e animali, nonché della pioggia generata per evapotraspirazione dalla stessa foresta. Prima ancora di crescere e creare se stessa nel suolo, questa molteplicità viva sostenta e crea il proprio suolo: una foresta tautegorica e autopositiva.

Secondo, l’Amazzonia non è mai stata un vuoto umano prima dell’invasione europea, al contrario il suo nadir demografico lo ha raggiunto dopo l’invasione come risultato di epidemie, metodici massacri, sradicamenti forzati delle popolazioni native per ristabilirli in conventi o piantagioni, nonché altri prodotti del Destino Manifesto dell’Occidente. Le popolazioni indigene avevano trovato, nel corso di millenni di coadattamento con l’ecosistema amazzonico (o ecosistemi, giacché l’Amazzonia non è una sola ma molte), soluzioni al problema del sostentamento di gran lunga superiori agli stupidi metodi moderni basati sulla deforestazione con catene, trattori, motoseghe e defoglianti, il cui obiettivo è sempre la creazione di uno spazio parcellizzabile, un ente agronomico astratto, adatto alla generazione di lucro o di specie vegetali agroindustriali, tutte cose, guadagno e monocoltura, che dipendono assolutamente da fattori produttivi sintetici (ormoni e antibiotici, fertilizzanti e agrochimica).

Una parte enorme della foresta amazzonica è sempre stata popolata, e sono molti secoli, forse millenni, che non è più foresta “primaria”. Gran parte delle specie utili dell’Amazzonia è proliferata in maniera diversa in funzione delle tecniche indigene di sfruttamento del territorio e delle sue risorse: quello che estraiamo dalla foresta prima di estrarre la foresta stessa – le castagne, l’açaí, la pupuña, il cacao, il babasú – ci è stato messo dagli indios, è stato naturalizzato da loro. La foresta, insomma, non è vergine. Attenzione, ministro, perché il fatto che non sia vergine non significa che sia lecito violentarla. Immagino che il parallelo sia facilmente immaginabile. Ma questo è proprio quello che lei fa.

L’Amazzonia subisce un violento processo di aggressione; l’Amazzonia intera, non la suddetta collezione di alberi; tutta l’Amazzonia, le sue tradizionali popolazioni umane e le innumerevoli popolazioni non umane. Un nuovo modello di sviluppo, come è stato più volte chiesto per il Brasile, uno che non sia la semplicistica imitazione delle ricette nordeuropee, deve essere un modello che ponga la foresta al centro dell’equazione – perché siamo arrivati ad un momento della storia del pianeta in cui la vita è il valore in crisi – tra la vita umana e quella non umana. Non è più possibile fare politica senza tener conto della cornice entro cui si fa tutta la politica reale, la cornice dell’immanenza terrestre.

In un’altra intervista recente, il ministro Mangabeira Unger ha detto che il destino dell’uomo è di essere “grande, divino, non un bambino rinchiuso in un paradiso verde”, e che “ogni persona è uno spirito che desidera trascendere”. Un discorso apostolico, insomma. Bè, signor ministro, gli indios forse sarebbero d’accordo con lei che tutti sono spiriti, anche se non concorderebbero con l’idea un po’ strana per cui solo gli esseri umani sono spiriti, ma questa è un’altra questione, fuori dal suo ambito. Di certo non sarebbero d’accordo con l’idea secondo cui tutti gli spiriti, o tutte le persone, “desiderano trascendere”. È un’affermazione che alle loro orecchie suonerebbe minacciosamente simile all’altra che sentono con così tanta insistenza da quando cinque secoli fa sono arrivati gli europei: ovvero che sono bambini e devono piegarsi davanti al messaggio divino della trascendenza per diventare pieni esseri umani, ovvero buoni cristiani, buoni cittadini (con molta fede ma senza un pizzico di terra). Sto parlando, signor ministro, della conversione e della catechesi imposta a forza, a cui si aggiunge l’assoggettamento economico e politico delle popolazioni indigene. Insomma, parlo del genocidio americano.

Gli indios non sono “rinchiusi in un paradiso verde”, ministro. L’Amazzonia non è un paradiso regalo di Dio; al contrario, è il risultato di un duro lavoro di coadattamento, un sistema in equilibrio dinamico a cui hanno contribuito tanto l’ingegno tecnico umano (indigeno) quanto gli infiniti ingegni naturali delle specie che occupano la regione. E gli indios non sono prigionieri. L’idea per cui il paradiso è, in sostanza, un carcere per l’uomo ha una lunga storia alle spalle nel pensiero occidentale. Ma entrambe le idee, quella del paradiso e quella del carcere, appartengono al Vecchio Mondo. Gli indios non hanno niente a che vedere con queste cose. Li tolga dal carcere concettuale in cui lei li ha rinchiusi, ministro. E lasciamo il paradiso a chi ne ha bisogno.

In un altro testo, Mangabeira Unger sostiene la tesi secondo cui le popolazioni indigene devono essere “liberate” dal loro stato di abiezione antropologica. La tesi, con il dovuto rispetto ministeriale, nasce dall’insolenza metafisica. Gli indios che soffrono di depressione, suicidio, alcolismo, come lamenta il ministro, sono proprio quegli indios che non dispongono della terra – i guaraní del Mato Grosso del Sud, ad esempio –, non gli indios dell’Amazzonia come gli yanomami, un popolo felice e forte proprio perché gode di un territorio a misura della proprie necessità vitali e spirituali. Le zone indigene dell’Amazzonia sono le meno deforestate del paese, sono queste che frenano la devastazione lungo le frontiere; e sono parti essenziali del processo di regolarizzazione o stabilizzazione giuridica di quel caos agrario che è l’Amazzonia, il paradiso dell’accaparramento, del banditismo, del narcotraffico, del contrabbando e degli aiuti di stato. E cosa propone il ministro? Un piano nazionale per la regolarizzazione fondiaria che è una ripetizione del vecchio e infame principio dell’uti possidetis: la legalizzazione dell’accaparramento a fatto compiuto. Ancora una volta esperti e banditi si prendono il meglio. Mai come ora la storia di questo paese ha somigliato così tanto alla storia di sempre di questo paese.

Certo gli indios soffrono di vari problemi, molti dei quali causati dall’incuria degli organi e delle agenzie di stato che dovrebbero far rispettare i loro diritti costituzionali, bisognerebbe “liberarli” dall’incompetenza e dalla fame di denaro del Sovrano. Ma non si può neanche dire che gli indios non abbiano altre difficoltà ad adattarsi alle forme socioeconomiche (e spirituali) della società nazionale. Non perché manchino loro le opportunità – anche se effettivamente mancano in moltissimi casi –, ma perché la loro cultura e la loro società hanno intrapreso molto presto un percorso di civiltà profondamente diverso dal nostro. È un percorso che potremmo chiamare la via dell’immanenza opposta alla via della trascendenza.

Le culture indigene non si basano sul principio per cui l’essenza dell’uomo è il desiderio e la necessità, la scarsità e le ansie. Il suo modo di vita, il suo “sistema” di vita, nel senso più profondo possibile, è un altro. Gli indios sono i signori dell’immanenza: quello che noi possiamo solo pensare, loro lo vivono. E quello che loro pensano, noi non riusciamo più neanche ad immaginare. Che trascendenza abbiamo, noi brasiliani orgogliosi, presunti rappresentanti della Ragione e della Modernità, da offrire loro? È più probabile che siano gli indios a liberarci che il contrario. Almeno nello spirito. Trascenda le sue ansie di trascendenza, ministro.

III

Oggi il Brasile si diletta con grandiosi sogni di crescita. In contrasto con il millenarismo diffuso nel paese – “è arrivata la nostra opportunità!” (l’opportunità di che, esattamente? Di sfruttare qualche paese più povero del nostro?) –, sono convinto che sia urgente, non “fermarsi a pensare”, ma pensare per non fermarsi; è urgente cominciare a pensare bene per non fermarsi per sempre. Occorre imparare a decrescere per non morire. Il Brasile è grande ma il mondo è piccolo. La Terra non sta per niente bene in questo inizio di secolo. Oggi esiste un’insostenibilità acuta degli standard globali di produzione, distribuzione e consumo dell’energia necessaria alla vita umana. Il nostro paese è uno dei pochi ad avere ancora possibilità in termini di risorse. Il Brasile vanta una delle popolazioni storicamente e culturalmente più diversificate al mondo: 220 popolazioni indigene, un’immensità di discendenti africani, immigrati europei e asiatici, arabi, ebrei; comunità rurali e urbane dalle origini etniche e culturali più diverse, che vivono in una varietà di formazioni naturali che, a loro volta, nutrono la biodiversità più ricca del pianeta. Sociodiversità e biodiversità dovrebbero essere i nostri principali successi in un mondo in processo accelerato di globalizzazione. E invece siamo ancora qui, come sempre, a segare meticolosamente il ramo su cui siamo seduti, con una politica del commercio estero che applica un modello di sviluppo ambientalmente suicida, economicamente retrogrado, socialmente impoverente e culturalmente alienante. Abbiamo devastato oltre metà del nostro paese credendo che fosse necessario uscire dalla natura per entrare nella storia. E oggi ci accorgiamo che quest’ultima, con la sua solita voglia di fare ironia, ci chiede come passaporto proprio la natura.

IV

La diversità delle forme di vita sulla Terra è consustanziale alla vita in quanto forma della materia. Questa diversità è il movimento stesso della vita in quanto informazione, assunzione della forma che interiorizza la differenza – le differenze potenziali esistenti in un universo costituito dalla distribuzione eterogenea di materia e energia – per produrre altra differenza, ovvero altra informazione. La vita, in questo senso, è un’elevazione a potenza, un raddoppiamento o una moltiplicazione della differenza per se stessa. Lo stesso per la vita dell’uomo. La diversità nei modi di vita dell’uomo è una diversità nei modi di porsi in relazione con la vita in generale, e con le innumerevoli forme singolari di vita che occupano (informano) tutte le nicchie possibili di questo mondo che conosciamo. La diversità umana, sociale o culturale, è una manifestazione della diversità ambientale o naturale: è questa che ci rappresenta come forma singolare della vita, il nostro modo di interiorizzare la diversità “esterna” (ambientale), e quindi di riprodurla. Per questo l’attuale crisi ambientale è immediatamente, per l’uomo, anche crisi culturale, crisi di diversità, minaccia per l’esistenza umana.

La crisi scoppia quando si perde di vista il carattere relativo, reversibile e ricorsivo della distinzione tra ambiente e società. Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, Paul Valéry constatava tristemente che “ora noi, noi civiltà [europee], sappiamo di essere mortali”. In questo crepuscolare inizio del secolo presente, cominciamo a capire che “noi, noi civiltà”, oltre che mortali, siamo mortiferi non solo per noi stessi, ma anche per un numero incalcolabile di specie viventi. Pare che noi moderni, figli delle civiltà mortali di Valéry, ancora dimentichiamo che viviamo della vita, che apparteniamo al mondo, non il contrario. Certo, lo sappiamo; alcune civiltà lo sanno; molte altre, diverse delle quali uccise da noi, lo sapevano. Oggi comincia a risultare evidente anche a “noi” che è d’interesse supremo e urgente per la specie umana che abbandoni una visione antropocentrica. Se la pretesa sembra paradossale è perché lo è; questa è la nostra situazione attuale. Ma non tutti i paradossi significano impossibilità; la strada intrapresa dalla nostra civiltà non ha alcun carattere di necessità dal punto di vista della specie. Si può cambiare strada, anche se questo significa cambiare molto di quello che molti considerano l’essenza minima della nostra civiltà. Il nostro curioso modo di dire “noi”, ad esempio, separandoci dagli altri, dall’“ambiente”.

Quello che chiamiamo ambiente è una società di società, così come quella che chiamiamo società è un ambiente di ambienti. Quello che è “ambiente” per una data società è “società” per un altro ambiente, e così via. L’ecologia è sociologia e viceversa. Come diceva il grande sociologo Gabriel Tarde, “tutte le cose sono una società, tutti i fenomeni sono fatti sociali”. Ogni diversità è ad un tempo fatto sociale e fatto ambientale; impossibile separarli senza risvegliarsi nell’abisso aperto quando abbiamo cominciato a distruggere le nostre condizioni di vita.

La diversità diventa allora un valore superiore ai fini della vita. La vita vive della differenza; annullare la differenza significa annullare la vita, significa morte. “Esistere significa essere diversi”, diceva Tarde; “al cuore delle cose c’è la diversità, non l’unità”. Così è l’idea stessa di valore, il valore di ogni valore, per così dire – il cuore della realtà –, ciò che presume e afferma la diversità.

È vero che la morte di uno è la vita di qualcun altro e che, in questo senso, le differenze che formano la condizione irriducibile del mondo non si annullano mai del tutto, cambiano solo di posto (il “principio di conservazione dell’energia”). Ma non ogni posto va bene per noi esseri umani. Né ha lo stesso valore (l’ecologia è questo: valutazione del luogo). La diversità socioambientale è la condizione necessaria di una vita ricca, una vita capace di articolare il maggior numero possibile di differenze significative. Vita, valore e senso sono, insomma, i tre nomi, i tre effetti, della differenza.

Parlare di diversità socioambientale non è constatare, ma chiamare alla lotta. Non si tratta di celebrare o rimpiangere una diversità passata, irrimediabilmente passata o di cui restano i residui. Non è una differenza statica, sedimentata in identità separate e pronte al consumo. Intesa nel senso di semplice varietà, la diversità socioambientale può servire a sostituire le vere differenze con differenze fittizie, distinzioni narcisiste che ripetono all’infinito la tiepida identità dei consumatori, tanto simili l’uno all’altro quanto più pensano di essere originali.

Ma la bandiera della vera diversità punta al futuro, ad una differenza differenziante, un divenire in cui la posta in gioco sia non solo ciò che è plurale (la varietà sotto il comando di un’unità superiore), ma anche il molteplice (la varietà complessa che non si lascia totalizzare da una trascendenza). Ciò che si vuole produrre, promuovere, favorire è la diversità socioambientale. Non è una questione di salvaguardia ma di perseveranza. Non è una questione di controllo o di progresso tecnologico, ma di autodeterminazione politica. Il problema, in sintesi, è cambiare la vita, perché in altro senso, molto più serio, di vita ce n’è solo una. Cambiare vita, cambiare modo di vivere, cambiare “sistema”. Il capitalismo è un sistema politico-religioso il cui principio consiste nel togliere alle persone quello che hanno e far loro desiderare quello che non hanno, sempre. Un altro nome è “sviluppo economico”.

Gli economisti sono i teologi del mondo contemporaneo. Non a caso Marx parla di sottigliezze metafisiche e di arguzie teologiche insite nel concetto di merce. Ora non riusciamo più a sopportare questa teologia dello sviluppo, questa equazione tra sviluppo e crescita. Il mondo degli economisti torna ad ascoltare quello che diceva N. Georgescu-Roegen sulla decrescita, i costi in termini termodinamici dell’economia, l’idea che esista una crescita antieconomica, quando la crescita produttiva costa in risorse e benessere più dei “beni” prodotti.

La tanto lodata nozione di “sviluppo sostenibile” – non si possono negare le buone intenzioni di quasi tutti quelli che l’hanno formulata e la difendono – è in fondo solo un modo per rendere sostenibile la nozione di sviluppo, e già da tempo avrebbe dovuto finire nell’impianto di riciclaggio delle idee.[2] È una contraddizione in termini. Non esiste sviluppo capitalista sostenibile; e, a meno che non mi sbagli, la stragrande maggioranza di chi parla di sviluppo sostenibile non immagina un’alternativa al capitalismo. Perché non la immagina è un’altra questione, molto più complessa. In qualche modo, invece di impastrocchiarsi nelle aporie dello sviluppo sostenibile, penso che sarebbe molto più interessante se cominciassimo a sviluppare (se posso usare il termine) il concetto di sufficienza antropologica. Non è autosufficienza perché la vita è differenza, relazione con l’alterità, apertura verso l’esterno in vista dell’interiorizzazione perpetua, mai raggiunta, di questo essere esterno (è l’esterno che ci mantiene, noi siamo l’esterno, in qualunque istante siamo diversi da noi stessi). È invece un’autodeterminazione, la capacità di determinare da soli, come progetto politico, una vita che sia buona e sufficiente.[3]

Lo sviluppo è visto sempre come necessità antropologica proprio perché suppone un’antropologia della necessità. Siamo qui in piena teologia della carenza e della caduta, dell’insaziabilità infinita del desiderio umano davanti alla finitezza dei mezzi materiali atti a soddisfare tale desiderio. È questo il cuore della “ragione” occidentale, come spiega benissimo Marshall Sahlins; è questa l’origine della nostra religione dello “sviluppo” (l’economia della Genesi e la genesi dell’Economia, secondo il gioco di parole di Sahlins). Questa concezione economico-teologica della necessità è superflua in tutti i sensi. Basta l’obiettivo della sufficienza. Contro la teologia della necessità, una pragmatica della sufficienza. Contro l’accelerazione della crescita, l’accelerazione nel trasferimento della ricchezza, ovvero la libera circolazione delle differenze; contro la teoria economicistica dello sviluppo necessario, la cosmopragmatica dell’azione sufficiente: l’improduzione come traguardo, l’involuzione intensiva come progetto collettivo di vita. Contro il mondo del “tutto è necessario, niente è sufficiente”, e a favore di un mondo in cui “pochissimo è necessario, quasi tutto è sufficiente”. E magari così riusciremo a lasciare un mondo ai nostri figli.

Concludo con una nota fantastica e pessimista. Immaginiamo uno di quei film di fantascienza di serie B in cui la Terra viene invasa da alieni che si camuffano da umani per dominare il pianeta e utilizzarne le risorse, perché hanno esaurito le risorse del loro mondo. Solitamente, in questi film gli alieni si alimentano degli umani: del loro sangue, della loro energia mentale, o giù di lì. Ora, immaginiamo che questa storia sia già avvenuta. Immaginiamo che questa razza aliena in realtà siamo noi stessi. Siamo stati invasi da una razza camuffata da esseri umani e abbiamo scoperto che loro hanno vinto: noi siamo loro. O forse ci sono umani di due specie, una aliena e una indigena? Forse è tutta la specie ad essere divisa in due, e alieni e indigeni vivono nello stesso corpo: è stato un leggero disallineamento della sensibilità a farci percepire questa autocolonizzazione. O, chissà, magari l’anima è l’invasore e il corpo è nativo. L’origine extraterrestre dell’anima: sappiamo già che il linguaggio, perlomeno, è un virus proveniente dallo spazio. Saremmo quindi tutti indigeni, indios invasi dagli europei; tutti noi, compresi ovviamente gli europei (uno dei primi popoli ad essere invasi). Una duplicazione perfetta in intensità, fine delle divisioni in estensione: gli invasori sono gli invasi, i colonizzati sono i colonizzatori. Dovremmo svegliarci da questo incomprensibile incubo.

È ora di rileggere Oswald de Andrade. L’uomo nudo capirà.


Note

[1] R. Mangabeira Unger si è lasciato andare ad una falsificazione retorica dicendo che l’Amazzonia era “più di una collezione di alberi, perché ci sono anche persone”. Persone che hanno bisogno dello Sviluppo portato dallo stato, ovviamente. Diciamo allora che l’Amazzonia di Mangabeira è, , una collezione di alberi, ma anche una collezione di genti, ed entrambe le collezioni sono suddite del Sovrano. Invece di una collettività di umani e non umani, due collezioni separate di individui (alberi e persone), ognuno separato ma tutti riuniti dal Riunitore Universale.

[2] Un giorno si dovrà cercare di armonizzare le idee di Georgescu-Roegen e di Georges Bataille sulla “economia generalizzata”. Il principio della spesa antiproduttiva di Bataille può essere interpretato creativamente all’interno di un progetto che rifiuti una “crescita economica” tecnicamente possibile ma antropologicamente assurda.

[3] Mi riferisco qui al celebre e ingegnoso concetto di Donald Winnicott della “good enough mother”, la donna come “buona madre”, buona almeno quanto basta a mettere al mondo un figlio sufficientemente normale, che poi è tutto ciò che occorre; e che è anche meglio di ciò che chiunque può essere.

Traduzione spagnola di Blog Artillería Inmanente. Originale: SOPRO 51 – Maio/2011

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