Franco Romanò
L’iconoclastia è un sentimento complesso che accompagna la storia di tutte le civiltà e che risorge nei momenti in cui i nodi vengono al pettine su temi cruciali e in questi tre mesi e nei successivi, ne sono venuti molti e altri ne verranno. Se ne facciano una ragione coloro che si scandalizzano. La rabbia di chi soffre sul proprio corpo e sulla propria pelle l’oppressione secolare o millenaria di una discriminazione e anche peggio è più che comprensibile e se in momenti di particolare tensione le cose tracimano, invece di stracciarsi le vesti sarebbe meglio offrire una capacità di rivivere e patire insieme. Su tutto il resto occorre discutere e saper distinguere, con pazienza, distinguere ogni volta, senza scandalizzarsi sull’abbattimento delle statue o sulla messa al bando di Via col vento; senza accettare tutto a priori con pelose adesioni acritiche, piuttosto prendendo tutto questo anche con un po’ di ironia, perché nell’iconoclastia c’è sempre anche un aspetto ridicolo, ma che va preso anche quello molto sul serio. Esso consiste nel fatto che spesso i bersagli sono quelli del momento, ma se poi si va oltre ci si rende anche conto che un simbolo o una statua ne tirano un’altra come le ciliegie e a quel punto si comprende che è possibile non ci si fermi più: l’iconoclastia tende sempre ad andare fino in fondo nei suoi momenti acuti. Via Col vento? E che facciamo allora di Tosca, di cui abbiamo ammirato la pregevole messa in scena di Livermore il 7 dicembre scorso, quando la pandemia c’era già ma non lo sapevamo? La storia è quella di un ricatto sessuale che porta a un suicidio.