Senza Sale


CarloPisacane

Carlo Sgorlon

Simone ricordò certi racconti del vecchio, che ripeteva come sentite da suo padre. Nel Settanta o nel Settantacinque, subito dopo la venuta degli italiani, c’erano stati anni di miseria così cattiva e sinistra che non v’erano soldi neanche per comprare il sale. Il sale era diventato roba dello stato, genere di monopolio. Se lo teneva ben stretto nei negozi gestiti da lui, e a loro contadini rideva in faccia se non si presentavano al banco con le palanche pronte e contate.

Nei racconti di Geremia lo stato italiano si personificava, diventava il ceffo duro e strafottente di un burocrate. Era nient’altro che uno degli infiniti invasori del Friuli, quello che aveva incrudelito di più con le tasse. Nascondeva dietro il banco le sue casse di sale e lo faceva pagare un occhio. Non tutti se lo potevano permettere. Così, ai tempi di suo padre, la polenta si mangiava senza sale, senza sale il radicchio, senza sale l’uovo sodo, diviso in due o in tre, e tutto era così insipido che neanche la fame più nera e rabbiosa riusciva a condirlo. Dài oggi e dài domani, a forza di mangiare tutto senza sale, e poco di tutto, nasceva non si sa quale ribellione del sangue. La carne si impoveriva, a pelle cominciava ad asciugarsi e a raggrinzirsi come una mela vizza, a spaccarsi e a inaridirsi. Era una malattia terribile e nefanda. La gente di campagna la temeva come le antiche pestilenze, come il colera, e si sbiancava in faccia solo a sentirne parlare.

“Lo sai, lo sai cos’era?” gli chiedeva Geremia. E aveva la faccia tesa e spaventata, come se quella malattia fosse ancora una minaccia, un pericolo sostanziale, che si poteva levare da un momento all’altro per un capriccio malandro del destino. Era una domanda retorica, era sicuro che Simone non lo sapesse. Simone era di un’altra età e non aveva mai visto la miseria nera, quella che alzava di peso, che s’impadroniva del bambino appena nato e lo accompagnava fino alla morte, come una cagna che non molla mai la presa.

Simone invece lo sapeva. Anche lui da ragazzo aveva sentito parlare di quella malattia, che terrorizzava i contadini come lo scorbuto e il tifo petecchiale spaventavano gli equipaggi delle navi, fino alla fine dell’altro secolo. Lo sapeva, ma per non deludere il vecchio fingeva di non saperlo. Lasciava che fosse lui a pronunciare quel nome spaventoso. “Non lo sai e non puoi saperlo. Era la pellagra…” La pelle si piagava come se il malato stesse morendo di sete nel deserto, e il sole gli avesse già bruciato gli occhi e seccato la gola con la sabbia. Era un po’ come la morte per sete. I malati smaniavano per giorni e giorni, assaliti da una smania senza requie, e non potevano più vedere la luce perché essa gliela rendeva più grande. Finché la morte se li portava via, presi ormai dal farnetico, senza più poter dare di qua neanche un minuto. E tutto perché lo stato se lo teneva, il suo sale, e non lo dava se non a chi gli buttava sul tavolo le palanche di rame o le lire d’argento.

Già, il sale. Ma oltre al sale vero e proprio, v’era anche il sale dell’anima e della vita. Quello che dà senso alle cose e ci fa pensare che dentro di esse vi sia sempre la sorpresa, il mistero, il miele segreto, e ci attira come i fiori attirano api e calabroni. Quel sale era inesorabilmente finito per Geremia, sicché le cose gli erano diventate tutte insipide e vuote. Una sorta di pellagra, diversa e tuttavia simile a quella che diffondeva ancora da lontano quell’antico spavento contadino, anche se i suoi terrori erano illanguiditi e quasi spenti per i tempi mutati, aveva attaccato la sua mente e gliela aveva divorata pian piano, fino a consumarla. Ecco perché era morto. Il medico poteva ben parlare di sincope, di colpo apoplettico. Poteva anche essere vero. Ma Simone sapeva che esso non era che l’atto finale di quell’inaridimento, di quella malinconia lunatica che aveva preso Geremia nel suo laccio, ormai da tanto tempo; di quel mattio nel quale era caduto da decenni, ormai, e nel quale andavano a impantanarsi tanti vecchi friulani.

Da: Gli dèi torneranno

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